Linee di fuga dalla Città

By: Salvatore Simioli

Oct 06 2018

Category: Architecture

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Dopo la fine della storia

L’urbanistica è sempre stata una disciplina molto complessa: al suo interno, celate da una tacita programmazione del territorio e delle sue risorse, si sono spesso scontrate istanze idiosincratiche; e questo di certo per via della sua connotazione squisitamente politica.

A distanza di ventritre anni dall’illuminante saggio di Rem Koolhaas sul JunkSpace abbiamo le prove tangibili di come essa si configuri anche come il principale campo di assemblaggio dell’immaginario collettivo. L’incessante produzione di periferia non ha reso desolate solo le nostre città, ma anche le nostre menti. Immense distese di béton brut, e unità di abitazione reinventate alla bene o meglio, impoveriscono i nostri orizzonti, ripiegandoli sulle formule mortifere della vita alienata, perché anzitutto escludono dalla città e dalla sua vita tutti i corpi improduttivi: la gran parte dei soggetti che vi avrebbero diritto. Se è in seguito al boom economico post-bellico che le periferie sono effettivamente proliferate imponendosi oggi come un paesaggio familiare, è solo negli ultimi trent’anni che la globalizzazione e la ferocia turistica le hanno sovrappopolate, rendendo i centri metropolitani definitivamente inaccessibili, sia economicamente che per qualità di vita e di attrezzature. Nonostante le grandi capitali europee conservino, malgrado questi processi, un loro residuo di identità, quest’ultima non rappresenta più nient’altro che un feticcio commerciale. La periferia, di contro, viene alla presenza come un’oggetto tecnico non funzionante, maltrattato o meno che sia, ma proprio per questo liberamente interrogabile e ineludibilmente comune. La Città Generica, altra categoria con la quale Koolhaas ci invitò a leggere il nuovo paesaggio metropolitano negli anni novanta, è ormai un paradigma inesorabile e probabilmente quella che ne veste al meglio gli abiti è Berlino.

La capitale tedesca, dopo aver fatto da sfondo agli eventi più nefasti del secolo breve, viene oggi agli onori della cronaca come capitale del piacere e della vita notturna. Tuttavia, le forze di trasformazione che l’hanno determinata in seguito alla caduta del Muro, lungi dall’essere irrintracciabili, hanno sorgente nel desiderio collettivo che ha tentato di rispondere a quella che forse è stata la più grande questione urbanistica che l’occidente abbia mai dovuto affrontare, ovvero: che fare della città, dopo la fine della storia?(1)

Ci sono stati Argini nella Ricostruzione.

Durante la guerra fredda la città occidentale e la sua corrispettiva rossa erano state oggetto di pianificazioni molto differenti: da un lato del Muro si erano attuati, sotto l’assessoratodi Hans Scharoun, i rigidi proclami funzionalisti del CIAM (vd. Il quartiere di Hansaviertel) e con i quali si era inteso potenziare principalmente le infrastrutture, mentre dall’altro Walter Ulbricht aveva propugnato una forma di monumentalismo a basso costo in salsa modernista. Il primo tentativo di pensare una città riunificata fu fatto, com’è noto, dall’IBA, l’ Internationale Bauausstellung,a cui si devono le due celebri mostre di progetti del 1984 e del 1987.

Lo scopo delle due esposizioni era quello di ragionare prevalentemente sull’identità violata della città, sulle scriteriate politiche di pianificazione precedentemente intraprese e sulla tematizzazione del centro, il mitte, fino ad allora e ancora per qualche anno, terra di nessuno. In particolare, fu durante la seconda mostra che Josef Paul Kleihues concepì la formula da lui ritenuta più adeguata per affrontare la ricostruzione all’indomani della caduta del Muro.La Kritische Rekonstruktionebbe un programma ambizioso:costruire 4.000 unità condominiali e 350 complessi di edilizia popolare per rispondere all’emergenza abitativa, strutture culturali e di svago in quello che poi sarebbe diventato il centro, nonché restaurare 7000 appartamenti storici nel quartiere di Kreuzberg. Quest’ultima operazione venne curata, all’insegna di una ‘Riqualificazione Prudente’ da  Hardt-Walt Hämer che per primo, forse, incentivando processi di self-help, comprese il grande potenziale di Berlino nella gestione comune del proprio patrimonio edilizio.

Ad ispirare Kleihues furono le letture di Aldo Rossi che in quegli anni monopolizzavano il dibattito sulla nuova metropoli europea: il sogno di una città modernista aveva mostrato chiaramente i propri limiti e l’attenzione si spostava verso il recupero dei suoi tratti caratteristici e tipologici. Difatti anche quando L’IBA si confrontò con la lottizzazione ex novo di grandi aree, ciò che mise al centro della propria operazione fu la ripresa della tipologia residenziale a corte, propria del panorama urbano pre-bellico, conservandola come tale anche nel profilo architettonico. Se il ritorno dell’isolato comportò l’effettiva fine delle fascinazioni per le vedute urbanistiche del razionalismo moderno, con le sue ‘stecche’ in serie, la proposta di fondare la città nuova sul retaggio ormai perduto deiruggenti Anni Venti apparve a molti come una scelta poco coraggiosa, se non addirittura reazionaria. Il Genius Loci di quei luoghi era andato ormai perduto sotto i bombardamenti, e all’insegna di una rinascita, recuperarlo attraverso un esercizio di memoria collettiva, sembrò superfluo oltre che doloroso, nell’inefficacia oggettiva di una selezione artificiosa e parziale.

La Ricostruzione Critica fu anzitutto la risposta che gli urbanisti tedeschi tentarono di dare al timore di un’americanizzazione della città, ma nella sua decisione di assegnare una quantità impressionante di incarichi singoli ai più noti architetti del panorama mondiale non fece nient’altro che trasformare Berlino in un Lunapark post-moderno, in cui la copia della copia disperse definitivamente l’immagine di un originale. Con il recupero di tipologie abitative premoderne, Kleihues orientò la progettazione residenziale verso una simulazione totale, che verrà poi ampiamente criticata nel corso degli anni successivi; soprattutto quando, per promuovere rapidamente la ricostruzione, si decise invece di concedere sussidi governativi e ingenti detrazioni fiscali alle grandi multinazionali, per l’edificazione dell’area di PotzdammerPlatz e del resto del Kulturforum cosicché Berlino potesse competere ad armi pari con le altre metropoli occidentali sul grande palcoscenico della società dello spettacolo. L’unica cosa che emerge oggi dal progetto di Piano sono proprio le istanze di spettacolarizzazione di un capitalismo vorace, incarnato per l’occasione da Sony e Chrysler, pronto a divorare la città territorializzandone il nucleo.(2)

Ci saranno Margini nella Città.

L’apertura delle porte della città ai grandi capitali transnazionali, dopo il Muro, pose in essere così una nuova esclusione. Le multinazionali non erano di certo state le sole a rivendicare uno spazio nella nuova eletta capitale; già prima che Berlino fosse riunificata, l’emergenza abitativa e la grande quantità di immobili abbandonati aveva spinto le generazioni più giovani a risolvere da sé i propri desideri ancor più dei propri bisogni, cominciando nel 1977 a Kreuzeberg, una serie di occupazioni, sia a scopo abitativo che ricreativo.

Il movimento degli squattersè stato fondamentale nel tracciare la nuova identità nomade di Berlino: mentre la cultura di Stato invitava a vederne il futuro nella riscoperta di un mito fondativo, le sottoculture vedevano in esso la possibilità concreta di accedere al proprio diritto alla città per inferirne i processi.

Potrebbe facilmente sembrare che sia stato il capitalismo a sostituire il “ludico del consumo” al “tragico dell’identità”, ma l’obliterazione di una storia di miseria e guerra è stata largamente condivisa e desiderabile anzitutto per via della necessità di sconfessare un suo possibile ripetersi. Come segnala Kathrin Schömer nel suo saggio Hedonismus und Ökonomie. Vom Salon zum Club, l’edonismo per Berlino è stato per davvero un nuovo mito fondativo, ma le sue declinazioni consumistiche hanno ben poco in comune con lo sfrenato edonismo underground che ne ha animato in quegli anni la rivoluzione culturale.

Ben De Biel, fotografo, ed ex proprietario del Maria Club nonché addetto stampa corrente del Partito Pirata di Berlino ricorda come:

“quelli che giravano attorno alle band della Berlino Est […] agissero deliberatamente, subito dopo la caduta del muro. Se sapevano che un edificio era vuoto, se lo prendevano. La “cellula” originale era il Wydoks sito in Alte Schönhauser Straße 5, che era stato occupato nel gennaio 1990. Poi venne l’Eimer in Ronsenthaler Straße 68, un edificio che sarebbe dovuto essere demolito e che quindi non era più sul registro delle proprietà. Dunque sapevano che avrebbero potuto agire in pace e tranquillità. E tutto questo è accaduto a Berlin-Mitte, proprio nel centro della città.” (De Biel B., 2014, trad. mia)

Nei mesi successivi alla caduta del muro e durante i primi mesi del 1990 furono occupati oltre 120 immobili, di cui 30 solo nell’area di mitte (Weitz J., 2014). La rivista anarchica Interimaggiornava costantemente un registro degli immobili vuoti, segnalandone la presenza ai collettivi. In Mainzer Straße, nelquartiere di Friedrichshain oltre la metà degli immobili era stata squattata, e tra le tante occupazioni ne spiccavano alcune totalmente sostenute da collettivi di gay, lesbiche e queer. Fu proprio in questi immobili occupati che nacque la sottocultura rave berlinese: nel Tacheles, uno dei primi squatad essere occupato dopo la caduta del Muro, trovò spazio lo Ständige Vertretung (in it. missione permanente) probabilmente il primo vero e proprio club techno della città, antecedente persino al più celebre Tresor, occupato qualche mese dopo dal collettivo Interfisch. Dopo un primo periodo di sgomberi e forte repressione, le forze politiche vennero incontro alle istanze degli squattersistituendo la possibilità di un “uso temporaneo”: una forma di accordo provvisorio che diede ai collettivi la possibilità di occupare legalmente un immobile per estrarne rispettosamente il potenziale creativo, prima che tornasse di diritto nelle mani dei vecchi proprietari. Molte di queste occupazioni ebbero così anche l’opportunità di regolarizzarsi, ponendo le basi per una città aperta e garante di ogni soggettività; a tal punto che il sindaco eletto nel 2001, Klaus Wowereit, primo sindaco gay della città, dichiarò che qualunque fosse stata l’identità di Berlino, essa, in qualche modo, doveva avere a che fare con la sua vita notturna. (3)

Parallelamente alla promozione della capitale come meta del desiderio e dello svago, si vedeva però il mercato immobiliare di Berlino avere un’impennata senza precedenti nella storia: secondo Tobias Rapp fu proprio la sussunzione del capitale simbolico indotto da queste forme di resistenza, a trasformare Berlino in un attrattore trans-nazionale (Rapp T., 2010). Il violento progetto di gentrificazione, che fu intrapreso tra Kreuzberg e Friedrichshain nell’area del Oberbaumbrücke, cominciò proprio con la demolizione dell’utopia proto-sovietica della Stalin-allee (oggi Karl Marx-allee), e con lei, dell’Ostgut, uno stabile occupato che ospitava un cruising club sadomasochista e feticista indirizzato principalmente alla comunità omosessuale, dove al suo posto sorse la spettacolare O2Arena Mercedes. Il club più famoso di Berlino, il Berghain, nacque nel 2004 proprio in seguito allo sgombero dell’Ostgut e oggi determina l’economia del quartiere, i suoi processi di gentrificazione, nonché la sua vitalità artistica e culturale, più di quanto sia mai riuscito a fare il grande auditorium. Divenuto ormai un’istituzione internazionale dello svago e dell’intrattenimento, questo club ha aperto le sue porte ad ogni orientamento sessuale, predisponendo con le sue dark rooms dei luoghi di sperimentazione sociale e sessuale fuori dal dispositivo ottico della cultura repressiva e subliminante vigente. A tal riguardo rimando al mio libro, pubblicato di recente da Lettera22

Tirare le somme di un ragionamento critico che investa l’urbanistica contemporanea non è facile: il filosofo Michel Foucault vedeva nello spazio urbano il luogo di un continuo conflitto biopolitico, in cui si scontravano quelle forze sociali che intendevano rideterminarne le soglie, predisponendo nuove inclusioni.

Nei luoghi che definì eterotopie,individuò l’attitudine straordinaria di una micro-società a rovesciare e a sovvertire ogni norma e convenzione, pur collocandosi all’interno della città e della sua rigida struttura semiotica. Sono proprio questi i luoghi di estrazione del grande capitale simbolico collettivo, da cui le nuove città creative traggono valore. Secondo Matteo Pasquinelli:

“la produzione culturale è oggi una macchina biopolitica dove tutti gli aspetti della vita sono integrati a messi a lavoro, dove nuovi stili di vita diventano rapidamente nuove merci, dove la cultura è considerata un flusso economico come altri e dove, in particolare, la produzione collettiva di immaginario è velocemente dirottata per incrementare gli affari delle grandi corporation.” (Pasquinelli M., 2008)

Occorre leggere il tessuto urbano di Berlino come un prodotto di queste forze, e spingere l’urbanistica ad uno sguardo più ampio su quelli che sono i processi determinanti della città, soprattutto ora che Google ha annunciato di voler acquistare un’ingente quantità di immobili nel quartiere di Kreuzberg per farne un Campus, e al quale i residenti si stanno opponendo con forza. Occorre un’analisi lucida affinchè queste forme di resistanza possano essere, non sussunte e messe a valore, ma aumentate, in modo che la città possa tornare ad essere vissuta dalla grande varietà della differenza, senza che essa venga per ciò, normalizzata e di conseguenza commercializzata: uno sguardo che presti soprattutto attenzione alla produzione immateriale e simbolica, e che restituisca finalmente a tutta la città l’opportunità di essere contaminata.

Note

  1. Vd. Fukuyama F., La fine della storia e l’ultimo uomo. Milano, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 2003. L’espressione, dalla pubblicazione di questo testo, in cui viene esplicitamente connotata alla caduta del muro di Berlino, è comunemente utilizzata per designare uno stato di sospensione in cui il capitalismo emancipatosi dai capitalisti stessi, farebbe oscillare la storia senza che si possa più produrre alcun cambiamento.
  2. Cfr. Stern R., Urban Memory and Identity in Berlin: The Politics of Post-Reunification “Critical Reconstruction” Reconsidered in AAVV, Berlim, Recontrução crítica, Porto, Circo de Ideaias, 2008 o anche le considerazioni fatte da Rem Koolhaas in SIEGERT H., Interview with Rem Koolhaas, Rotterdam, 1999.
  3. Sindaco di Berlino con SPD dal 2001 al 2014, Klaus Wowereit “alla domanda se esista uno ‘stile Berlino’, risponde ‘si e no’.‘Forse lo stile di Berlino è quello di non lasciarsi afferrare. È diverso da locale a locale, da club a club. In questa città la gente non si lascia facilmente mettere in una casella.” cit. in Rusconi G. E., Berlino.La reinvenzione della Germania, il nocciolo, Roma-Bari, Gius. Laterza&Figli, 2009, p.13.