Corrodere la Scena

By: Salvatore Simioli

Sep 22 2018

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Category: Architecture

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Mi è stato chiesto cosa ne pensassi del tema di questa Biennale: FreeSpace. Spazio di Libertà. Ebbene, interrogarsi oggi sul gradiente di libertà di uno spazio significa interrogare l’architettura sul piano del suo stesso paradosso.

Per quanto nel secolo scorso il postmoderno l’abbia liberata dal peso della disciplina, essa non ha di certo mutato natura: il suo rapporto con lo spazio resta per statuto intrinsecamente dispotico, la sua funzione resta surcodificatrice, la sua meccanica instrinsecamente labile: porre argini, dis-porre limiti, siano essi fisici o semiotici.

Lo spazio tuttavia, non è un’entità astratta da surcodificare, ma una precisa modalità dell’esistente, in cui una fitta rete di relazioni tessuta tra oggetti, assume una configurazione che siamo soliti chiamare corpo.

Le cose emergono nel reale, prendono corpo, trovano spazio, o per meglio dire, se lo conquistano, in quella lotta per l’esistenza di cui ci parlava Malthus: la loro potenza di esistere si esprime nel gesto, che lungi dal partire dal corpo, è proprio ciò che invece lo anima, donandogli con-sistenza.

Non è difficile centrare il punto. Potremmo dire che per sua natura non esiste uno spazio che non sia il luogo di una performance e dunque che, per sua natura, non esiste uno spazio che non sia scenico. La società occidentale, nel suo slancio coloniale, su questo postulato ha persino rifondato un capitalismo morente.

Le metropoli si ergono davanti ai nostri occhi come il più grande ed avvincente palcoscenico: lo spettacolo si riproduce in ogni momento ed è proprio l’architettura a scriverne il copione.(1)

La sua opera è un testo: è aperta e si presta ad essere tradotta, ma solo entro i limiti del linguaggio, della parola impotente, così come la definì Ungaretti.1

Ciò che allora bisogna domandarsi politicamente, in questo dispositivo di scrittura di scena, è chi dell’architettura ne fruisce, chi se ne addentra, quale discorso prenda in carico, e con quali codici effettui questa traduzione.

Tschumi, così come i situazionisti che animarono il Maggio parigino, si è posto la questione in termini di partecipazione, di libertà d’uso dello spazio architettonico e contaminazione nella forma-evento (2); ha indagato la relazione che il corpo costruisce con l’architettura nelle sue situazioni limite, eppure ne ha mancato sensibilmente il potenziale deterritorializzante: progettare un’architettura che si presti ad essere dialogica, mutante, ricettacolo dei desideri singolari di ogni individuo, dal momento che questi desideri sono soggiogati, presi in una morsa, non è di certo sufficiente ad estinguerne il paradosso.

Il corpo interagisce con l’architettura secondo schemi dati, ma perché esso se ne liberi occorre piuttosto che sia l’architettura invece a trascinarlo, e che quest’ultimo avverta in essa la tensione di un movimento.(3)

La traduzione in questo caso è e deve essere un tradimento: un volgere a sé, come un’atto che comporta —sempre— un plusvalore di codice, un apporto mancato, in grado di aprire continuamente linee di fuga inaspettate nella trama dell’ordinario. In ogni profanazione del progetto, in ogni momento in cui il senso di un’architettura e della sua struttura spaziale viene disatteso da un corpo, in essopassa qualcosa. Dobbiamo far sì, per impegno politico e per sovvertire una società votata allo spettacolo, che ciò che passi sia l’Osceno, nella maniera in cui lo aveva inteso Carmelo Bene.(4)

Solo configurando uno Spazio O/scenico, in cui finalmente il corpo possa sentirsi libero dall’ingiunzione dell’immagine, libero di esprimersi con nuovo linguaggio che lasci passare solo le intensità, libero di sperimentare la sua potenza di agire, l’architettura potrà dire di poter essere davvero tradotta e di aver compiuto il suo dovere sociale.

Note.

1 DEBORD G., La società dello spettacolo, Milano, Baldini&Castoldi, 2013. pp.54-55: “lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini”

2 Vd. TSCHUMI B., Architettura e Disgiunzione, Bologna, Pendragon, 2005.

3 BROOK P., Lo Spazio Vuoto, Roma, Bulzoni Editore, 1998, pp.48: “Se si parte dalla premessa che un palcoscenico è un palcoscenico e non uno spazio che si addice alla messa in scena di romanzi, poemi, conferenze o racconti, allora possiamo affermare che la parola detta su questa scena esiste o non esiste soltanto in rapporto alle tensioni che è in grado di creare all’interno di quelle determinate condizioni sceniche.”

4 BENE C., Uno Contro Tutti, Maurizio Costanzo Show, 23 Ottobre 1995: https:// www.youtube.com/watch? v=7V8Vow86g2k: “Ecco, Costanzo è l’oggetto dei miei sregolati desideri, in quanto Io, di questo medesimo, di quest’Io. E qui siamo nell’Eros. Se mi contraccambia, se il plagio funziona, direbbe Stendhal se si verificano le varie cristallizzazioni, numero uno due o tre eccetera, ma sono in realtà infinite… […] allora l’oggetto davvero, in questo caso, sarebbe l’oggetto del mio desiderio, cioè Maurizio Costanzo, il soggetto, Carmelo Bene in questo caso, non è altro che l’oggetto squalificato […] questo avviene, avviene, si dà, si sdà, si svende sul marché, sul mercatino delle pulci dell’erotismo. Il porno (lo o-scenè, a da alfa privativo, o/a-scenè, fuori dalla scena, tutto quanto non è di scena) non si pone più, non pone più un soggetto davanti a un oggetto, ma nell’abbandono totale del contemplarsi, del riguardarsi anche in atteggiamenti che si chiamano “osceni”, […] non siamo più soggetto e oggetto, io e Maurizio Costanzo, ma il soggetto diventa un tutt’uno, torna a fondersi col suo oggetto, non lo vuole più conoscere, si misconosce, si automisconosce, nella fusione con il suo, non più suo oggetto… questo è il porno, questo abbandono.”

 

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